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UNO SGUARDO DAL PONTE (libri a confronto)

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DE RERUM NATURAE
ovvero sulla Natura e roba del genere


 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Se le cose fossero andate diversamente, con ogni probabilità questi libri avrebbero meritato una riflessione separata, una per il nuovo libro di Emma Adbåge che si intitola Natura e una per L'erbacciadi Quentin Blake. La circostanza, non casuale, che abbiano viaggiato assieme in una unica busta, è stata presa come spunto, forse pretestuoso, per metterli assieme in una riflessione sulla questione comune intorno a cui ruotano.
Per tenerli insieme, a parte il tema, si potrebbe dire, per esempio, che dove finisce uno inizia l'altro.
Emma Adbåge racconta con voce di bambino cosa sia la sua, del bambino, percezione della natura circostante. Il ragionamento di questo ragazzino si muove intorno ad alcune constatazioni di fatto. Via via che la sua osservazione si costruisce e delinea, si deduce che il rapporto con la natura e le persone che il ragazzino ha intorno a sé sia difficile.
Ed è proprio da qui, ovvero da una oggettiva situazione di impedimento che parte il libro di Blake.
Procediamo con ordine: nel libro della Adbåge l'io narrante parte dalla constatazione che distinguere tra il paesino in cui lui e le persone, un po' di animali -come cani e roba del genere- vivono e le altre cose -come boschi, lago, cespugli, mare- che si possono chiamare Natura. Prosegue constatando che alle persone piace la Natura mentre alla Natura non piace nulla in particolare, quindi neanche le persone. Lei va avanti e basta.
La sua successiva presa d'atto attesta che alle persone la Natura piace fino al momento in cui essa non diventi di intralcio: per esempio il tiglio, che perde tutte quelle foglie che poi devono essere raccolte, è meglio tagliarlo. 
 

Per non parlare della troppa neve che si accumula e che si scarica nel lago, o delle erbacce (!) che vanno tirate via e sostituite con del liscio e pulito asfalto, o del vento che va ostacolato con un molo più resistente, o del caldo che va combattuto a cubetti di ghiaccio in piscina... Il fresco arriva dall'aria condizionata nelle macchine, perché fuori il caldo aumenta ed è in arrivo anche un gran temporale, con i fulmini che portano il fuoco e poi il vento che distrugge tutto quello che ha intorno. E quando tutto si placa di nuovo, e questa è la constatazione finale, da una parte c'è il paesino - più che altro case, asfalto e roba del genere e dall'altra la Natura - come boschi, lago, cespugli, mare.
E da una situazione del genere sembra partire la storia di Blake che esordisce esattamente così: 
 
"Il mondo stava diventando secco e arido e sempre più difficile da abitare. Finché un giorno, senza alcun preavviso, nella terra si aprì una profonda spaccatura e la famiglia Dolciprati ci si ritrovò sul fondo."
 
I Dolciprati, in teoria, potrebbero essere tra gli abitanti del paesino della Adbåge? In linea di principio, sì. A vederli, però, sembrano molto più simpatici e decisamente più sprovveduti, in fondo a quella buca. 
 

Padre, madre, Marco e Lily i due fratelli, e il loro merlo indiano parlante, Octavia, che, apertale la gabbietta, vola in alto e torna con un semino che lascia cadere in una crepa del terreno, in fondo alla voragine, ai piedi dei Dolciprati che la guardano pieni di stupore. All'istante, da quel seme comincia a crescere una pianta. Parrebbe solo un'inutile erbaccia, se non fosse che, diventando sempre più grande, sempre più alta e robusta con le sue foglie tutte diverse sembra adattissima, come suggerisce con saggezza indiana il merlo Octavia, a portarli fuori di lì.
Un ibrido tra il robusto fagiolo della fiaba e un albero dei desideri che provvede ad appagare con la dovuta cura la fame dei singoli componenti della famiglia Dolciprati e un arbusto intelligente e generoso nel mettere in salvo i quattro da eventuali cadute, per poi farli atterrare sani e salvi, di nuovo in superficie.
Dove la Natura, sempre lei, si è ripresa un po' di spazio.
Del legame tra le due trame si è detto fin qua.
Dei distinguo, di alcuni e non tutti, che da qui in poi vengono messi in elenco, ognuno poi proverà a trarre le proprie conclusioni.
Emma Adbåge costruisce, come è suo costume fare, una storia nata dall'osservazione della realtà. Qui, parrebbe, con minor distacco del solito.
Quentin Blake parte da un piccolo dato di realtà e poi racconta una fiaba che per molti versi porta in sé semi ben più antichi, che verrebbe da definire di radice biblica.
Emma Adbåge si mette ad altezza bambino, come è suo costume fare, per raccontare dei fatti. Questa è una delle grandi capacità che le vanno assegnate e una delle qualità che distinguono i suoi bellissimi libri.
Quentin Blake ha il tono di un vecchio sapiente che sta raccontando un apologo di valore filosofico. 
 

Emma Adbåge è tagliente nel disegno sbilenco, come nelle parole,come è suo costume fare, e riconferma qui la sua dote naturale nel saper raccontare senza filtri pietosi la realtà per come la può vedere un bambino: senza sovrastrutture, armato solo della forza dei fatti. L'ironia e talvolta il sarcasmo di testi e disegni arrivano un po' dopo e, forse, solo ai più grandi. Il tono, che Samanta K. Milton Knowles traduce felicemente, è quello di un parlato veloce, spontaneo, diretto. Volutamente e con sapienza sempre un passo prima della sgrammaticatura.
Quentin Blake di contro è empatico con i suoi personaggi. 
 

È quasi affettuoso con loro e alla fine se ne fa carico e li porta sempre e comunque 'a casa'. Lui ha un tono lento e attento, curato, direi profetico nella voce del merlo. Nessun giudizio, nessun sarcasmo.
Emma Adbåge ha evidentemente una sua denuncia da fare, ha una questione che le preme venga affrontata, ha una sua precisa lettura della realtà intorno a cui costruisce un discorso polemico di cui quel bambino è consenziente portavoce. Come a dire, se non fosse già chiaro, che il pensiero del suo protagonista coincide con il suo.
Quentin Blake ha prima di tutto una bella storia da raccontare, una storia che ha del magico in sé e che contiene un germoglio - è proprio il caso di definirlo così- dalle grandi potenzialità, con il compito di svilupparsi ed eventualmente sbocciare, quando sarà il tempo, nelle coscienze di ciascuno.
 

La sua posizione, il suo messaggio vola alto con Octavia, per ridiscendere e ancorarsi alla realtà, solo nelle sei parole della dedica finale.
 
Carla


La Natura, Emma Adbåge (trad. Samanta K. Milton Knowles)
Camelozampa, 2021
L'erbaccia, Quentin Blake (trad. Sara Saorin)
Camelozampa 2021



FUORI DAL GUSCIO (libri giovani che cresceranno)

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NELLA SUA PELLE


‘The skin I’m in’ è il titolo originale del romanzo pubblicato nel 1998 dalla scrittrice afro-americana
Sharon G. Flake; Giunti lo traduce nel sottotitolo, ‘Il colore della mia pelle’. La scelta editoriale coglie l’attimo, l’attenzione alle tensioni razziali, così forti negli ultimi anni negli Stati Uniti e non solo.
Il romanzo racconta la storia di Maleeka Madison, tredicenne dalla pelle molto scura, che frequenta una scuola non certo di prim’ordine e del suo incontro con un’insegnante dall’aspetto non proprio comune e dai modi piuttosto irrituali. Le vicende di Maleeka, che ci parla in prima persona, sono piuttosto complicate: è orfana di padre, la madre ha faticato non poco a riprendersi dal lutto, grazie anche alle improbabili attività di sarta; a scuola non è popolare e sopravvive grazie a Charlese, ragazzina viziata e decisamente prepotente, che si serve dell’amica per superare le prove scolastiche, ma sottoponendola continuamente a ricatti e soprusi.
Poi c’è John-John, che ha avuto una cotta per lei e si è sentito respinto e si si vendica schernendola in continuazione.
La verità è che la ragazza non si piace: si vede troppo scura, troppo alta, troppo magra; non le piacciono i vestiti che le cuce la madre, non le piacciono le ‘amiche’ di Charlese, un giro di bulle di periferia. In compenso le piace la matematica e, grazie ai metodi poco convenzionali della professoressa Saunders, scopre anche che le piace scrivere.
E poi c’è un ragazzo, Caleb, che timidamente le si avvicina.
Ovviamente, non stiamo parlando di una scuola qualsiasi, ma di una di quelle scuole di periferia, non troppo costose, che raccolgono alunni e alunne dei quartieri poveri; intorno alla scuola, strade malfamate, teppisti, paure e coraggio che si tengono a braccetto.
Maleeka ci racconta tutto questo in un’altalena di stati d’animo, che alternano la speranza di una vita diversa, normale, alla sensazione di essere chiusa in trappola, all’interno di contesti violenti da cui non riesce a sfuggire. Proprio per la sua difficoltà a reagire ed allontanarsi da Charlese e le sue amiche, si fa coinvolgere in un atto di vandalismo dentro la scuola. Ma non tutti credono alla versione ufficiale dei fatti e quindi forse ci sarà per lei una possibilità di riscatto.
Come ambientazione e tematiche, questo romanzo si affianca a quelli, decisamente successivi in termini temporali, di Reynolds, in particolare a ‘Ghost’, a dimostrazione che venti anni non sono riusciti a modificare in modo significativo la condizione degli afro-americani poveri: in entrambi i romanzi sono raccontate famiglie monoparentali, difficoltà economiche, un contesto sociale pericoloso e spesso violento.
Maleeka ci racconta, però, qualcosa di in più: la difficoltà di amarsi quando si ha la pelle nera, troppo scura, troppo lontana dall’ideale di bellezza rappresentato dalle ragazze caucasiche. Non stare bene nella propria pelle, vedersi brutta, introiettando un pregiudizio negativo, direttamente o indirettamente razzista. Ma come tanti romanzi ci hanno raccontato, la discriminazione per le peculiarità di alcuni individui non riguarda solo il colore della pelle: scoprirlo per la protagonista di questo romanzo è anche l’inizio di un percorso di accettazione di sé.
Anche qui, come in altre storie, la scuola è il principale strumento di emancipazione messo a disposizione dei più giovani; spesso ce ne dimentichiamo, anche qui, ora, accade che una pandemia allontani dal percorso scolastico quei ragazzi e quelle ragazze più fragili, che non riescono a condividere le magnifiche sorti e progressive della tecnologia.
Non stiamo parlando, dunque di condizioni astratte e distanti: discriminazioni, bullismo, precarietà economica, fragilità delle famiglie più esposte economicamente, sono condizioni che continuano a presentarsi soprattutto nelle periferie delle grandi città. Tanti ragazzi e ragazze sono lasciati soli ad affrontare problemi troppo grandi per loro.
Singolare, dunque, l’attualità di questo romanzo, anche al di là del suo contesto specifico; è un romanzo imperfetto, con un ricorso in alcuni punti eccessivo a metafore e paragoni; ma è una storia molto viva, vicina alla sensibilità di giovani lettori elettrici, dai dodici anni in poi, scritta con uno stile diretto, esplicito, e con un grande ritmo narrativo.
Vale la pena leggerlo.
 
Eleonora


“The skin I’m in. Il colore della mia pelle”, S. G. Flake, Giunti 2021





UNO SGUARDO DAL PONTE (libri a confronto)

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MINUSCOLI

Forse la grandezza di un autore la si misura sulla base del fatto che non è misurabile mai in modo definitivo. Calvino, alludendo ai classici, sosteneva che hanno sempre ancora qualcosa da dirci.
Kitty Crowther in questo senso è esemplare. Ogni volta che si prende in mano un suo libro la percezione di riuscire a valutarne per intero il valore sfugge. Inesorabilmente.
Per questa ragione, e per una serie di puntiformi dettagli che me la fanno sentire affine, in più occasioni mi sono dedicata a lei e ai suoi libri che, modestamente, credo di aver collezionato nel tempo, in varie lingue differenti a seconda delle circostanze, dal francese, al tedesco, allo spagnolo. E ancora per questa stessa ragione che lei è forse una delle autrici dal cui catalogo pesco con più sicurezza per rendere tangibile quel poco che so di letteratura per l'infanzia. E ancora, a lei ho dedicato una ricerca 'monografica' che vado raccontando nei miei incontri - Foto di gruppo con autore - che hanno la velleità di fare luce sulle poetiche di autori e autrici imprescindibili.
 

Dal che si può dedurre quanto Kitty Crowther sia importante ai miei occhi.
In Italia, è un fatto, molti dei suoi libri più significativi continuano a mancare, come se non avessimo ancora tutti gli strumenti necessari per farceli piacere. Fortunatamente però, nell'ultimo anno, sugli scaffali delle librerie sono comparsi (o ricomparsi) alcuni titoli importanti: Marameo ha ripubblicato Il mio amico Jim, Iperborea ha pubblicato La grande fuga, dove i suoi disegni compaiono, caso piuttosto raro, a illustrare un testo non suo, qui di Ulf Stark. E ultimi, i primi due titoli della serie Poka & Mine.
Per questi due ultimi titoli, Il calcio e Le nuove ali, si dovrebbe festeggiare doppiamente. Primo, perché è un altro tassello per comporre la bibliografia italiana di una autrice così importante, secondo, perché essendo una serie, se ne preannunciano altri titoli nei prossimi tempi. Fino a oggi, per Pastel, che è il suo editore belga di riferimento in lingua francese, ne ha già pubblicati otto.
Nell'ambito delle storie illustrate, in Italia non sono frequentissime le serie ovvero storie diverse con personaggi che ritornano. Mi viene in mente Elmer o il Ranocchio di Veltuijs, o forse ancora Ernest e Célestine, ma si contano su una mano effettivamente. A questi pochi si può aggiungere la serie dei Mumin che tecnicamente, sebbene illustrati, appartengono alla narrativa, ma hanno avuto anche esiti nel campo del fumetto, pensato per i più piccoli, con Iperborea fino al 2019.
Quindi doppio evviva per una serie illustrata pensata per lettori e lettrici minuscoli. Kitty Crowther quando li ha concepiti, inizialmente su una cartolina di auguri illustrata, li ha amati così tanto da renderli protagonisti di una serie di piccole avventure quotidiane.
 

Poka & Mine sono insetti. Neri. E si muovono in un mondo di insetti. A tutti gli effetti hanno sempre le loro 6 zampe di ordinanza che implicano magliette e maglioni rigorosamente a quattro maniche, quindi sono antropomorfizzati il giusto, ma sempre nel rispetto della loro identità di minuscoli artropodi esapodi. Non hanno la bocca, ma hanno grandi occhi espressivi. Poka è un maschio adulto e Mine, invece, è piccola e femmina. Stando al loro tipo di relazione interpersonale e soprattutto a quanto ha detto più volte la stessa Crowther, sono padre e figlia (in ultimo, nell'Oblò a lei dedicato da Hamelin, in occasione della Fiera del libro di Bologna che è stata annullata l'anno scorso). Riguardo a questo dato che io ed altri pensavamo assodato, a me sfugge il femminile usato per Poka nella peraltro curata  traduzione di Chandra Livia Candiani. Ma sono certa che è solo un mio limite, non aver colto qualcosa. Magari continuerò a pensarci.
Comunque sia, è di nuovo Kitty Crowther che racconta che la cosa che le preme soprattutto raccontare nelle storie di Poka e Mine è la loro relazione reciproca: piccoli fatti quotidiani che portano i due personaggi a confrontarsi con il piccolo mondo che li circonda.
 
 
Ed è proprio nella lettura diversa della realtà che i due spesso dimostrano di avere, quella di un grande e quella di una piccola, che Crowther instilla valore.
Spesso e volentieri la pensano diversamente, per esempio sugli sport da praticare o le scarpe da comprare. Spesso e volentieri il grande deve trovare in sé un accomodamento per non dimenticare mai il suo impegno di cura, che il ruolo di adulto - di padre - gli conferisce. E quindi iscrivere Mine alla scuola di calcio e poi di danza e comprarle le ali o le scarpe che la piccola desidera.
Attraverso tutto questo è inevitabile notare un paio di nodi importanti per capire il pensiero che è alla base dei libri della Crowther.
Il primo è l'amorevole accoglienza. Che si esprime non solo tra Poka e Mine, ma anche tra l'autrice e i suoi personaggi, ma soprattutto tra loro e il mondo che li circonda.
Dell'amore per la Crowther e i suoi personaggi si potrebbero scrivere pagine. Qui basterà dire che quando le si presentano davanti (raramente è lei che li va a cercare o li progetta a tavolino), il primo sentimento che lei prova nei loro confronti è di affetto. Che passa attraverso la cura e il rispetto profondi che si dovrebbero sempre avere nei confronti dell'altro da sé. Personaggi inventati, compresi.
 
 
Poka & Mine si amano perché si rispettano nella loro diversità di vedute, la loro è una cura reciproca.Sono sodali, pur nella loro diversità. E la & che lega i loro nomi sancisce la loro 'società affettiva'.
Rispetto al mondo esterno, agli altri, il sentimento che sembra diffondersi è quello dell'armonia, dell'intesa, dell'accordo. Si tratta di qualcosa di simile all'armonia che Tove Jansson ha sparso nelle sue storie dei Mumin, cui Kitty Crowther è da sempre debitrice confessa. Ognuno con una precisa peculiarità caratteriale, nel mondo dei Mumin, tutti trovano il loro spazio e la loro dignità di esistenza.
Tutto questo porta come inevitabile conseguenza che nelle storie di Kitty Crowther ai personaggi sia data sempre la possibilità di 'tornare a casa'. Questo non vuol dire che le sue storie non attraversino grandi profondità e grandi ombre, fatte anche di inquietudine, delusioni, dispiaceri, sconfitte, tuttavia alla fine c'è sempre una via di uscita positiva da questa immersione nella complessità dei sentimenti.Ben inteso, niente a che vedere con il c.d. 'lieto fine' pur che sia.
 

L'altra grande questione è l'attenzione per il mondo nascosto della natura, osservato con occhio attento perché minuscolo, ma molto vitale. Un mondo animale che più di altri porta in sé l'interesse che a suo tempo mosse la Potter, altro debito confessato da Crowther, a raccontare la storia di piccoli animali che nonostante vestano panni umani, non dimenticano mai di essere conigli, rospi, topi e porcospini. Non si tratta di animali esotici, ma presi dalla campagna inglese. 
 

La Crowther fa ancora un passo in più, di Poka e Mine ci dice solo che sono insetti, ma quali non deve importare. Così come disegna la sua botanica a memoria, mischiando piante e fiori solo sulla base dei suoi ricordi, lo stesso fa con Poka e Mine. Con la speranza recondita che un giorno qualcuno scopra che i suoi disegni hanno anticipato la scoperta di una nuova specie di insetto oltre al milione che è già stato censito.
 
Carla
 
Poka & Mine Il calcio, Kitty Crowther  
(trad. Chandra Livia Candiani) Topipittori  2021

Poka & Mine Le nuove ali, Kitty Crowther  
(trad. Chandra Livia Candiani) Topipittori  2021

FUORI DAL GUSCIO (libri giovani che cresceranno)

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IL VOLTO INATTESO DEL MALE
 

‘Senza una buona ragione’, di Benedetta Bonfiglioli, pubblicato da Pelledoca, è indiscutibilmente una storia ‘nera’. E’ la descrizione di una discesa all’inferno di una ragazza normale, normalissima, quasi banale, nella cui vita entra il ‘male’, impersonato da una compagna di scuola.
Tutto inizia con la partenza di Carlo, fratello della protagonista, Bianca; il ragazzo è stato ammesso alla Sorbona e parte lasciandosi alle spalle la sorella, con cui ha condiviso tutto, e la fidanzata Greta.
Bianca è coinvolta suo malgrado nel dolore di Greta, che è anche una sua compagna di scuola; da quel momento la sua vita precipita in un incubo: dagli scherzi pesanti, a veri e propri sabotaggi, compiti sostituiti, video osceni, ovviamente ‘modificati’, furti, fino alle scritte contro un’insegnante, la cui colpa viene addossata a Bianca. Il risultato è una bocciatura immeritata, con grande dolore dei genitori, che con il loro bar e con mille sacrifici hanno consentito ai figli di studiare.
La colpevole di questa cospirazione, abbastanza machiavellica, è certamente Greta, di questo la protagonista è convinta, ma non osa confidarsi con i suoi amici di sempre Olivia e Chicco, ma solo con la compagna di classe Mila. Alla fine dell’anno scolastico è con lei che partirà per una breve vacanza al mare ed è durante questo viaggio che si svelerà la verità.
Bianca fugge dal pullman su cui stava viaggiando e comincia a vagare fino a essere raccolta da un ragazzo alla fermata di un bus. Sta cercando una volontaria che deve accompagnare a un rifugio in montagna. Bianca approfitta del fraintendimento e inizia la sua fuga dal mondo; nel corso di due mesi, lavorando con compagni silenziosi quanto lei, ma partecipi nei limiti del possibile al suo dolore.
Un passaggio necessario per poter guardare al passato senza disperazione.
Il romanzo è dunque concepito in due parti, la discesa all’inferno, grazie all’intervento sistematico di una coetanea, e la lenta risalita, grazie alla presenza di estranei solidali. La prima parte alterna il racconto dal punto di vista di Bianca, scritto in seconda e terza persona, alle pagine del diario della persecutrice, di cui si intravedono le motivazioni. Da una parte, dunque, l’inconsapevole ‘caduta’ di Bianca che subisce le violenze crescenti senza riuscire ad arginarle, presa in una spirale depressiva che la porta all’autolesionismo. Dall’altra una voce carica di odio e di rancore, come se la distruzione di Bianca fosse l’unico rimedio a una vita non sopportata. Sullo sfondo le famiglie, dove campeggiano inesorabilmente genitori distratti dal lavoro o dai disastri coniugali, fatti di separazioni, adulteri, distrazioni. Padri e madri che poco sanno e meno vogliono sapere dei propri figli, salvo disperarsi quando sono messi di fronte ai loro drammi.
La forza di questo racconto di adolescenze perdute non sta nella plausibilità, perché davvero che nessuno veda, si insospettisca, si ponga dei dubbi è un po’ forzato; così come lo sono le figure di adulti, che sono più che altro attori muti e passivi che fanno da sfondo al dramma che consuma i loro figli. La vera forza sta nel descrivere quello che davvero può succedere fra una vittima e il suo carnefice. Una vittima che in qualche modo introietta la responsabilità di quanto accade e se ne fa annichilire, una carnefice che riesce a trovare una sorta di riparazione ai propri disastri, distruggendo la vita degli altri. Un meccanismo feroce che difficilmente può essere smontato da chi lo vive direttamente. La solitudine che gli e le adolescenti vivono è spesso il frutto delle lenti deformanti di un’identità in costruzione, che si percepisce unica e sola di fronte a un mondo ostile; questo spesso non consente loro, come in questo romanzo, di chiedere aiuto.
Il racconto di Benedetta Bonfiglioli ha tutte le caratteristiche del noir, costruendo una storia che porta inesorabilmente il lettore e la lettrice ad aspettarsi un finale che poi viene addolcito da un necessario colpo di scena. Una svolta imprevista che consente alla protagonista di uscire dal tunnel in cui era finita, con una nuova vita tutta da scrivere.
La durezza delle situazioni e il linguaggio esplicito mi spingono a consigliare la lettura dopo i sedici anni.
 
Eleonora


“Senza una buona ragione”, B. Bonfiglioli, Pelledoca 2021





 

LA BORSETTA DELLA SIRENA (libri per incantare)

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UN VECCHIO E UN BAMBINO 
 
Ulf, il bambino grintoso, Ulf Stark, Markus Majaluoma
(trad. Samanta K. Milton Knowles)
Iperborea 2021


NARRATIVA PER PICCOLI (dai 5 anni)
 
"'Credi che i pesci arrivino in tavola volando, già puliti e salati, e si posino da soli su un vassoio?''Sarebbe divertente'. 'Sì però non succede' disse il nonno. 'E domani tu mi farai da schiavo. Mi aiuterai tutto il giorno, così ti ricorderai per sempre che non devi catturare i bombi'. 'Uff' dissi.
Quella notte sognai dei pesci volanti. E il giorno dopo iniziai a lavorare."
 
La storia è presto detta: il piccolo Ulf è in campagna dai nonni paterni, con, sullo sfondo, mamma, papà e fratello maggiore. Nonno Gottfrid non si ferma un minuto, dalla mattina alla sera. Ed è sempre lì che impreca mentre lavora, aggiusta, pianta, sradica: e in tutto questo fare, gli insetti gli danno fastidio. Quindi Ulf, che ha appena catturato l'ennesimo bombo che adesso ronza come un rasoio elettrico in una scatolina vuota di cerini, pensa di fargli un piacere, portandogli in dono l'ambita preda. E invece no, il nonno lo sgrida! I bombi sono instancabili impollinatori, serve che volino liberi! 
 
 
Ulf non ne fa una giusta, a sentire nonno Gottfrid. E poi, a tutte le sue richieste di collaborazione - spaccare la legna, per esempio - quel nipotino gli dimostra di essere senza un briciolo di grinta.
Un giorno da 'schiavo', al completo servizio del nonno, ne raddrizzerà per bene il carattere da mollaccione. A salvarlo dalla fine di una giornata molto faticosa - legna accatastata, latte ritirato, panche dipinte - arriva in traghetto il vecchio Gustav, il nonno materno, che per 5 corone compra Ulf e ne riscatta la libertà. Sebbene anche Gottfrid ora debba ammettere che quel piccoletto si è dimostrato finalmente grintoso e che tutti quei soldi li vale davvero, un meraviglioso piano di rivincita si fa spazio nella mente vulcanica del nonno antischiavista. Adesso che Ulf è un bambino libero sarà con Gustav che assaporerà il gusto di un'avventura notturna e di un magnifico scherzo mattutino.
 
Tutto il bene possibile su Ulf Stark è già stato scritto in queste pagine, in svariate e molteplici occasioni (basta digitare il suo nome nella barra di ricerca e il gioco è fatto). 
Qui come altrove il racconto è intriso di ironia e nel contempo, di profondità. C'è però un'altra qualità che Stark mette sulle pagine di questa brevissima storia, ultima in ordine di pubblicazione, che continua a colpirmi per il suo essere rara e preziosa.
Credo di non essere lontana dal vero se affermo che si possono contare sulle dita di una mano gli autori che la possiedono, questa qualità, e che riescono a servirsene, con così tanta naturalezza, come se fosse per loro aria da respirare.
Si tratta della capacità di raccontare una storia con una voce che, anagraficamente, non gli appartiene, ma emotivamente è tutta loro. Ovvero quell'abilità che in pochissimi hanno di abbassare del tutto il loro tono adulto per dare fiato invece alla loro stessa tonalità, ma infantile. E nel farlo, ed è qui la meraviglia, non dimenticano neanche per un secondo la loro condizione di persone grandi. Credo che questo abbia un po' a che fare con una loro memoria mai sopita di quello che è stata la personale esperienza infantile, la loro lettura del mondo, quando erano bambini. Quello che, per esempio, le rispettive mogli e figlie di William Steig e di Tomi Ungerer definivano, con ironia/affetto/ammirazione, un inspiegabile arresto del loro processo di crescita. 
O forse si tratta del metodo Stanislavskij applicato alla letteratura?
In sostanza, qui Stark mette in scena una sorta di numero di ventriloquia, in cui è contemporaneamente capace di essere lo scrittore dei personaggi e, nello stesso tempo, i personaggi stessi. Tutto più facile quando a parlare sono Gustav o Gotttfrid, molto meno quando è la volta di Ulf e di suo fratello maggiore.
 

Si guardi per esempio la questione della 'schiavitù' come è risolta magistralmente. Nessuna remora nel dire al proprio nipote: domani tu sei il mio servitore e nessuna esitazione in tutti gli altri adulti che incontra Ulf e ai quali comunica con rassegnata onestà il suo ruolo di 'schiavo' del nonno. Tutti, ma proprio tutti, non mettono in discussione la sua condizione di vittima, si limitano a compiangerlo, perché quel nonno lì non perdona. Nessuno dei grandi muove un dito e Ulf non si aspetta neanche che qualcuno lo faccia per toglierlo dai guai. La stessa soluzione del riscatto pagato da Gustav fa parte della grande messa in scena. La grande abilità di Stark, ovvero quella di dare tridimensionalità, spessore ai personaggi, attraverso il loro stesso agire e parlare, ma soprattutto attraverso lo sguardo di un bambino, fa sì che, quando il libro si chiude, il lettore abbia di tutti costoro una percezione chiarissima, costruitasi lentamente e in tutta la sua complessità di luci e ombre, attraverso una rete di punti che si sono andati a disporre strategicamente nel racconto. E così, con questa stessa naturalezza, prendono corpo questioni ben più profonde e universali, che ci lasciano lì a ragionare per giorni. Come per esempio il rapporto tra "un vecchio e un bambino..." 
 

E quindi, per tutte queste ragioni, mi piace credere che, dopo aver finito anche quest'altro libro di Stark, anche un bambino potrebbe muovere la seguente richiesta, usando le parole del sommo poeta: E poi disse al vecchio con voce sognante:"Mi piaccion le fiabe, raccontane altre!"
 
Carla

FUORI DAL GUSCIO (libri giovani che cresceranno)

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E L’UOMO INCONTRO’ IL CANE 


Questo è il titolo di un testo divulgativo di Konrad Lorenz, che ho letto nei lontani anni ‘80 e il cui primo capitolo, dove parla della domesticazione del cane, sembra essere molto vicino a quanto racconta Michele Serra nel suo ‘Osso. Anche i cani sognano’, una storia breve illustrata da Alessandro Sanna e pubblicata da Feltrinelli.
In questo racconto, Serra immagina un uomo anziano, sopravvissuto alla recente pandemia; vive in una bella casa ai margini della città e vicino a un bosco, miracolosamente ancora intatto.
 

Nel prato davanti alla casa compare un giorno un cane magrissimo, un segugio perso o abbandonato. Nonostante non abbia mai avuto cani, l’uomo decide di nutrire il cane, il quale, però, si sottrae a ogni contatto diretto. Così, per qualche giorno, l’uomo lascia la ciotola col cibo nel prato, per ritrovarla vuota il giorno dopo.
L’uomo ha una nipotina, Lucilla, che ogni tanto va a trovarlo con la sua simpatica e ingombrante maremmana, di nome Roba; è proprio la bambina a dare un nome al cane randagio: Osso.
Il vecchio e la bambina fanno spesso passeggiate nel bosco, accompagnati dalla rassicurante presenza di Roba e rallegrati dalle incursioni di Osso.
Dunque, lentamente la diffidenza di Osso si fa via via più lieve e il vecchio si diverte a osservarlo mentre corre con Roba, o mangia, o si riposa, sognando sogni di cane.
 
 
Il vecchio, stupito da quanto la sola presenza di un randagio malandato abbia potuto cambiargli la vita, racconta a Lucilla, la nipotina, una storia che potrebbe essere quella vera, della domesticazione del lupo migliaia di anni fa: un gesto di pietà, unito all’utilità di avere delle sentinelle molto affidabili, fece sì che una piccola comunità umana cominciasse a condividere i propri spazi con alcuni cuccioli di lupo, in cambio della loro collaborazione nella caccia.
Lorenz parlava di una discendenza diretta dagli sciacalli e solo parzialmente dai lupi, ma questa tesi, che ritorna per un accenno anche nel libro di Serra, è stata abbandonata da tempo.
Ma al di là di questo, che può incuriosire i più giovani nell’indagare sulla storia di un animale comunissimo e in realtà poco conosciuto, quello che mi ha colpito maggiormente è il parallelismo fra l’incontro del vecchio con Osso e l’incontro antichissimo fra uomo e cane. Come se ogni volta, da entrambe le parti, si stipulasse un patto di reciproca fiducia.
Bisogna avere occhi ben aperti per vedere nel cane la sua animalità e riconoscerne il valore, apprezzando come la sua intelligenza, e soprattutto le sue capacità empatiche, ci consentano di comunicare e di scambiare affetti e compiti, creando legami solidissimi. I cani sono spesso passatempi, o strumenti di lavoro, pochi si soffermano a guardarli per quello che sono, animali che della condivisione con l’uomo hanno fatto una non irreversibile scelta di vita.
Il racconto scorre veloce, con il ritmo e le atmosfere di una storia leggendaria, la storia di un ‘miracolo’ rinnovato, dell’incontro dell’uomo e del cane. E la percezione del ‘miracolo’ deriva dalla constatazione della profondità del legame che si crea fra due creature così diverse nel percepire il mondo e nel viverlo. 
 
 
Alessandro Sanna, con i suoi acquerelli così sapientemente evocativi, sostiene lo sviluppo della storia e ne sottolinea l’aspetto più simbolico. Il suo ‘Osso’ è esattamente come dovrebbe essere, magro, spaventato, incuriosito, esuberante, libero, come è libera la natura che l’ha accolto fino a quel momento.
Lettura consigliata a bambine e bambini amanti degli animali e delle buone letture, a partire dagli otto anni.
 
Eleonora
 
“ Osso. Anche i cani sognano”, M. Serra, ill. di A. Sanna, Feltrinelli 2021





LA BORSETTA DELLA SIRENA (libri per incantare)

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GLI OCCHI DEI PASSERI
 
Poesie nell'erba, Sabrina Giarratana, Sonia Maria Luce Possentini
AnimaMundi Edizioni 2021
 
  
POESIA
 
"Bisogna avere gli occhi dei passeri
per mettere a fuoco certi esseri
bisogna muoversi a piccoli passi
farsi silenziosissimi e dimessi
cercare di capire da lontano
l'attimo, per avvicinarsi piano
poi restare semplicemente fermi
così vicini da scoprirsi inermi
vibrare insieme, accogliere il suono
ringraziare e custodire il dono."

 

Onestamente non so se ho gli occhi di un passero, ma so per certo che metto grande impegno a fare tutto quello che questa poesia-ricetta consiglia di fare: provo a muovermi a piccoli passi, divento silenziosa e dimessa, cerco di capire mantenendo la distanza, poi mi faccio più vicina e quindi mi fermo, mi lascio attraversare dal suono delle parole, ringrazio e custodisco questo regalo, che è il nuovo libro di poesie di Sabrina Giarratana, altrettanto poetico nelle tavole di Sonia Maria Luce Possentini.  
Questa postura del corpo, ma ancora di più dell'anima è quella che mi sento di consigliare a tutti coloro che con questo tipo di immagini poetiche cercano un incontro. Un appuntamento che non sia saltuario, al contrario che abbia una cadenza tale da non far dimenticare l'ultima poesia letta, prima di leggerne una nuova. Non facciano dimenticare l'ultimo disegno, appena girata la pagina.
Ma tant'è. Rari sono i lettori abituali di poesia illustrata, rari sono coloro che considerano la poesia, sia essa testo o sia essa immagine, 'pane quotidiano' e di conseguenza si fanno rari anche gli editori per ragazzi che nel loro catalogo decidono di lasciare uno spazio sufficientemente 'arioso' perché la poesia possa attecchire e crescere.
Anima Mundi non è un editore che si occupa in modo specifico e programmatico di letteratura per l'infanzia, tuttavia per una certa parte del suo prezioso catalogo ospita nomi di autori e di autrici che hanno parlato, scritto e raccontato anche ai bambini. In questo senso, la trasversalità della poesia può far miracoli. E in questo stesso senso più di un libro targato Anima Mundi potrebbe aprirsi e trovare la giusta voce per essere letto a dei bambini.
 
 
Primo fra tutti Le poesie nell'erbadi Sabrina Giarratana e Sonia Maria Luce Possentini.
Ventotto poesie, ventotto tavole magnifiche, ventotto narrazioni sul filo della rima, o forse più delle assonanze, composte per regalare un'armonia sonora e visiva a significati ben più profondi. Ventotto poesie e ventotto illustrazioni che sono sguardi su cose che tutti possono vedere: le stelle, la luna, il chiaro del cielo all'alba, alberi.
Come sempre accade nella poesia è nella prospettiva che però si genera la meraviglia.
E qui però il gioco si fa addirittura doppio: da un lato la poesia fatta di parola di Sabrina Giarratana, dall'altro la poesia fatta di segni, di colore, di sfumature atmosferiche all'alba, o davanti a un bosco o di fronte a un tramonto, per la mano, qui davvero libera, di Sonia Maria Luce Possentini. Decisamente l'illustrazione di poesia è la sua voce più felice.
 

Ma torniamo dunque a cogliere quelle prospettive inaspettate cui si accennava al principio: leggiamo di quella stella che cade e che, pur cadendo, non fa rumore. Ed in questo che avviene il miracolo nei nostri occhi, nelle nostre orecchie, nel nostro cuore. Dopo aver letto quelle parole, dopo aver visto quelle immagini, nulla può essere più come prima. Questi sono gli esiti della buona poesia. Oppure quella bella luna piena, a ben vedere, ci viene raccontata sospesa, lì appoggiata a un ramo con il solo intento di riposarsi: se così è l'albero diventa stelo e lei il suo tondo soffione che all'alba con un soffio scompare per lasciare dietro di sé solo una poesia.
O ancora quell'albero grande che tutte le sere parla all'albero piccolo, sono albero padre e albero figlio, nel linguaggio delle foglie. Sebbene la loro lingua possa sembrare oscura, ciò nonostante il loro messaggio lo percepiamo come vero. Potrebbe essere altrimenti?
 

Accanto al patrimonio comune della natura e dell'universo che ci accomuna, Sabrina Giarratana e Sonia Maria Luce Possentini poggiano il loro sguardo su piccoli gesti che invece sono personali. E anche con questi riescono a creare un piccolo miracolo visuale che ce li rende in qualche modo familiari, intimi: il soffiare su una ferita che brucia, sdraiarsi in tre al chiaro di luna su una coperta in un prato (visti da una prospettiva rasoterra che è una meraviglia già in sé), buttarsi da una roccia facendo finta di morire, nell'atto di cadere. E ancora la poesia di Sabrina Giarratana è capace di invertire la rotta consueta quando mette in fuga uno spaventapasseri, rendendolo spaventato, o quando fa parlare un sasso che non aspetta altro che di essere lanciato a pelo d'acqua dalle mani di un bambino o ancora quando mette i piedi a una panchina e la fa andare e venire lungo la campagna e i boschi, senza mai farle perdere la sua qualità migliore, quella di essere ospitale. 
 

E come se non bastasse più di una volta il suo sguardo si alza e spazia verso l'infinito e con lei la visione della Possentini, ed è qui che il loro respiro rallenta come se ci volesse un tempo maggiore per trovare le 'parole' i 'toni' adatti per descrivere in uno la magnificenza e la fragilità della bellezza. E noi che siamo lì con entrambe non siamo più noi, ci trasformiamo attraverso i sensi, in tutto quello che ci circonda, fosse un filo d'erba, fosse un odore percepito, un insetto incrociato sul cammino. E quando questo accade non possiamo fare altro che fermare il passo, abbassare la voce, e inchinarci di fronte 
 
"alla meraviglia dell'universo
al miracolo ogni giorno diverso
all'essere qui, all'esserci stati
e alla fortuna di essere grati."
 
Ecco, essere grati a Sabrina Giarratana, a Sonia Maria Luce Possentini e ad Anima Mundi che pubblica libri così.
 


Carla

 

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OGNI STORIA HA UN LUOGO


O viceversa; ma scoprire la storia di un luogo in fondo è opera di ricostruzione storica, ricerca di documentazione. Mentre dare un luogo preciso, per essere esatti una casa, ad una storia è opera almeno in parte di invenzione.

E’ questo l’interessante punto di partenza del libro di Seiji Yoshida, raffinato illustratore giapponese, ora pubblicato da L’Ippocampo: ‘Il libro delle case straordinarie’.
Può essere considerato come un puntiglioso esercizio di stile o come un invito a fantasticare sui luoghi immaginari, in ogni caso abbiamo di fronte un inconsueto repertorio di abitazioni, rappresentate nelle loro facciate, nelle sezioni, in dettagliatissime piantine che spiegano ogni particolare.
Ogni luogo è proprio presentato così con due o più tavole, accompagnate da spiegazioni, didascalie, una breve storia del personaggio che lo abita. Interrompono la sequenza delle tavole due approfondimenti, che riguardano i tetti e i bagni, argomenti in effetti piuttosto interessanti. Alla fine, oltre agli schizzi e ai bozzetti, con il chiarimento su alcuni aspetti tecnici, vengono riportati i riferimenti storici di alcune tavole.



Abbiamo così alcune abitazioni che hanno riferimenti ben precisi: il faro col suo malinconico guardiano, o ‘La torre vicina al confine’, ripresa da costruzioni della Georgia del XIX secolo; o una prodigiosa casa sull’albero del Connecticut di oggi. 




Ma ci possono essere anche ispirazioni più vaghe, ambientate per esempio in Tibet, oppure del tutto fantastiche, come nel caso della ‘Ragazza della città sommersa’, dove si vede una Hong Kong di un ipotetico futuro, o ‘La casa sull’albero del cacao’.


L’abilità dell’autore nel creare queste ambientazioni con analitico realismo è davvero notevole, così come lo è il suo tratto, considerando che tutti i disegni sono fatti a mano libera e colorati sapientemente ad acquerello, proprio quando un soggetto del genere avrebbe potuto essere trattato adeguatamente col disegno digitale.
I personaggi risentono dello stile illustrativo delle ‘anime’, i fumetti giapponesi che hanno visto grandissimi maestri, elemento stilistico che contraddistingue in particolare alcune tavole.



In conclusione questo è un libro che può essere usato in molti modi: come spunto per proprie invenzioni, come studio di tecniche di disegno e pittura applicate al tema della casa, come carrellata storica di ambientazioni diverse.
Le tracce narrative sono brevi accenni, ma bastano a giustificare quel luogo, quella determinata atmosfera. Ci si potrebbe cimentare a seguire questi spunti per vedere dove l’ispirazione può portare il giovane lettore o la giovane lettrice. Può essere apprezzato da chi ama fantasticare, da chi ama il disegno, da chi è curioso di architetture reali e immaginate, direi dai sette ai novantanove anni.

Eleonora


“Il libro delle case straordinarie”, S. Yoshida, L’Ippocampo 2021




LA BORSETTA DELLA SIRENA (libri per incantare)

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C'ERA UNA VOLTA, ED E' SUBITO FIABA
 
Dulcinea nel bosco stregato, Ole Könnecke (trad. Chiara Belliti)
Beisler 2021
 

 
ILLUSTRATI PER PICCOLI (dai 6 anni)
 
"C'era una volta una bambina di nome Dulcinea. Dulcinea viveva con il suo papà in una casetta al limitare del bosco.
Avevano una mucca per il latte, le galline per le uova, e nel giardino crescevano gli alberi da frutta e anche un cespuglio di more.
Nel loro piccolo orto coltivavano patate e carote.
Quel che mancava lo acquistavano al mercato del villaggio."


Nella vita della piccola Dulcinea e del suo papà tutto va a meraviglia. Ogni tanto Dulcinea lo aiuta nei lavori, ma il più del tempo lo passa giocando con i suoi animali e lui non si arrabbia mai con lei perché le vuole molto bene. Solo su una cosa è molto perentorio con lei: nel bosco non deve entrare, perché potrebbe incontrare la strega che vive sull'altro versante, nel suo grande castello. Quando, per il compleanno di Dulcinea, la scorta di mirtilli finisce, il suo papà decide che arrivare fino al mercato sarebbe un viaggio troppo lungo, così pensa di sfidare la sorte e andare lui nel bosco, appena un momento, a raccoglierne una manciata da mettere sulle frittelle con la panna montata, che tanto piacciono alla sua bambina.
Ovviamente, appena arriva davanti al cespuglio di mirtilli, incontra la strega che, consultato il suo libro di magie, lo trasforma in un albero nodoso e robusto. Dulcinea, a casa, intanto è lì che aspetta. Alla fine intuisce che qualcosa non va e si avvia fuori di casa a cercarlo. Disubbidendo, entra nel bosco, senza per questo mai mollare i palloncini della festa...


A tutti coloro che almeno una volta nella vita abbiano lettoIl gigante di Zeralda di Tomi Ungerer sarà risuonata in testa un'eco. A parte il finale, ben inteso, dove Ungerer sterza un bel po' dallo schema consueto e tocca uno dei suoi vertici di inquietudine che lo hanno reso celebre, unico e e amatissimo dai bambini.
Ma Ungerer è Ungerer.
 

Qui Könnecke applica invece lo schema della fiaba classica, della tradizione, quello che Propp ha individuato come canone.
Si parte da un equilibrio iniziale, in cui conosciamo la grande armonia tra padre e figlia. Segue poi la rottura di questo idilliaco equilibrio, ovvero arriva una complicazione. In questo caso un incantesimo. Quindi partono le peripezie dell'eroe, o per meglio dire dell'eroina. Furba e determinata, Dulcinea riesce a ristabilire l'equilibrio iniziale, magari con anche una punta di irrisione nei confronti della vanitosa strega.
Compaiono anche le funzioni, quelle che Propp ha individuato passando al setaccio migliaia di esempi di fiabe: c'è l'allontanamento, il divieto, la partenza, la lotta, la vittoria.
Tuttavia Propp non avrebbe mai potuto prevedere il grande disordine in cui vive questa strega, né immaginare che la strega fosse così maledettamente sciatta da lasciar per terra, sul pavimento della sua camera da musica, tutti gli spartiti e altri oggetti, compreso il libro degli incantesimi a cui ambisce la piccola Dulcinea e un calice di cristallo, in cui inavvertitamente inciampa la povera bambina.
Dalla fiaba deriva anche il bosco incantato, magico. Il Zauberflöte e la Zauberberg non avrebbero potuto essere i precedenti letterari cui ispirarsi per questo Zauberwald?
 

Stabilito che Könnecke con Dulcinea ha voluto scrivere qualcosa di molto tradizionale, proprio una fiaba nella sua accezione più classica, dove sta la bellezza di questo libro?
Come al solito, trattandosi di Könnecke, lo scatto si ha nella definizione dei personaggi e nei dialoghi assurdi che mette nelle loro bocche. Ma soprattutto nella vena ironica del disegno che dà forma all'intera storia.
In primo luogo la strega, che effettivamente non è una bellezza, sembra piuttosto un donnone smemorato e distratto, che corre e si sbraccia sguaiatamente per tutto il libro. Non ricorda le formule, ma è molto creativa nel tipo di trasformazioni che mette in atto. Esilaranti si rivelano i suoi ragionamenti ad alta voce: visto che il padre è un amante della natura dovrà tramutarlo in albero e visto che Dulcinea davanti a lei dichiara di amare la sua musica, opta per un incantesimo che la trasformi in flauto, e quando scopre invece che è il suo compleanno, cambia idea e decide di mutarla in torta.
 

Nel disegno, Könnecke si diverte lasciando sull'albero alcuni connotati del padre, ovvero i baffi, il cappello e il paniere, i ciuffi di foglie fungono da mani affettuose; mette al cervo gli occhiali da sole, nell'aria fa volare pesci e le piante hanno occhi, d'altronde non è forse magico quel bosco?
Come spesso accade, decide per una tonalità di colore dominante che declina per sfumature, e come altrettanto di frequente succede, si fa notare per una composizione della pagina molto potente con scorci arditi e fossati pieni di nero. I suoi personaggi, la strega al contrario è dissonante, sono quelli cui ci abituato, da Anton in poi: testone rotonde, pochi tratti somatici e tutta quella bella espressività racchiusa negli sguardi.
 

Non tocca i vertici del poetico West raggiunti dal bambino cowboy Desperado, e non si ride tanto quanto con Lester & Bob, tuttavia resta sempre una bella gioia dare a un bambino o a una bambina un libro di Könnecke in mano.
Per farlo, però occorre aspettare ancora poco più di dieci giorni.
Intanto però, il consiglio è: fate scorta di mirtilli.
 
Carla


 

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SCOMPARSO


Guido Sgardoli ama attraversare i cosiddetti generi letterari con grande disinvoltura, adattando mimeticamente linguaggio e riferimenti dei suoi racconti.
In ‘Scomparso’, pubblicato da poco da Einaudi Ragazzi, i riferimenti si moltiplicano: c’è il linguaggio e la struttura del gioco di ruolo, c’è il giallo classico, con la sua logica deduttiva; c’è la speciale soggettività del protagonista, Jupiter/Julius, all’interno del particolare gioco di ruolo da lui stesso creato, che rimanda ai protagonisti di altri romanzi, come ‘Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte’ e ‘Il mistero del London Eye’.
Dunque, Jupiter/Julius si è creato un suo gioco di ruolo che lo aiuta ad affrontare i momenti difficili della sua vita; è un ragazzino ‘strano’, speciale, dalla logica stringente, con una grande passione per le parole e una certa difficoltà di relazione con il genere umano, che lo fa vivere all’interno della sua bolla di aria azzurrina, per tenere a distanza il resto del mondo. Uno come lui non può che essere la vittima predestinata dei bulli, così quando li vede avvicinarsi, lancia il suo dado e tenta la sorte, facendo leva sulle proprie abilità. Non sempre gli va bene, e, in una mattina come tante, incappa nei suoi persecutori, che stanno per avere la meglio, quando interviene un ragazzo che, prima di andarsene, gli regala una vecchia foto, una polaroid.
Dopo poco tempo, quel ragazzo viene trovato in stato confusionale vicino al cadavere di un uomo, l’ex capo della polizia Tony Malden.
Da questo momento iniziano le indagini parallele della polizia, da un lato, rappresentata dalla coppia di investigatori Sal La Dulce ed Helmut Rossi, nonché dalla psichiatra Karen Zaius, e del nostro coraggioso protagonista, dall’altro, che indizio su indizio, cerca di ricostruire l’oscura vicenda.
Tutto è complicato dal doppio ruolo che tanti personaggi finiscono con l’avere: non solo il protagonista, anche il ragazzo che lo ha salvato nasconde un terribile segreto che riguarda un bambino scomparso molto tempo prima, Adam, e il suo amico Leo; lo stesso ex capo della polizia, la vittima del delitto, in realtà aveva un’inquietante doppia vita, irreprensibile funzionario e feroce serial killer.
La narrazione alterna, con ritmo incalzante, la descrizione oggettiva delle indagini alle ricerche portate avanti da Julius, raccontate in prima persona. Il linguaggio del protagonista è intriso del gergo dei giochi di ruolo, il suo mondo è ontologicamente diviso in Ghast (i cattivi), Amorfi, Zoog. Come qualsiasi bravo eroe, Jupiter/Julius deve affrontare le sue prove facendo leva sulle proprie abilità, sull’appoggio di altri Zoog o Amorfi, e sulla fortuna indicata dal tiro di dado. Come qualsiasi bravo eroe, non sarà più lo stesso alla fine dell’avventura e potrà affrontare i Ghast in carne e ossa con una sicurezza insperata.
Questo è un giallo classico che più classico non si può e ogni riferimento a Poe è pienamente voluto; è un giallo classico ‘contaminato’ dal linguaggio e dalla logica dei giochi di ruolo, giochi fra i più intellettuali all’interno dei giochi da tavolo, che stanno vivendo un nuovo splendore. È un linguaggio forse meno conosciuto dai ragazzini, rispetto ai più popolari giochi da play station.
Questo è un romanzo divertente, in cui ci si diverte in modi diversi, districandosi fra gli indizi, o immaginandosi una città trasformata in mappa per i movimenti reali o immaginari di un gamer. Ma è anche una finestra socchiusa sul lato nero della vita, sulle storie orribili di orchi e di bambini.
Credo si sia divertito molto anche l’autore, sempre attentissimo a dare coerenza alle storie fin nel minimo dettaglio, con un uso sapiente del linguaggio; ed è un piacere leggere queste pagine anche per la cura con cui la storia è costruita, i rimandi impliciti ed espliciti, per il divertimento nel vedere le carte dei generi letterari n po’ sparigliate.
Considerarlo solo un ‘giallo’ può essere riduttivo, consiglio la lettura soprattutto a lettrici e lettori alla scoperta di nuovi territori narrativi, a partire dai dodici anni.
 
Eleonora


“Scomparso”, G. Sgardoli, Einaudi Ragazzi 2021



LA BORSETTA DELLA SIRENA (libri per incantare)

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L'ALIBI

Un po' troppo, Olivier Tallec (trad. Maria Pia Secciani)

Edizioni Clichy 2021


ILLUSTRATI PER PICCOLI (dai 5 anni)
 
"Io e il mio albero ci prendiamo cura l'uno dell'altro. Io gli parlo e lui, a volte, mi regala una delle sue pigne. Adoro le pigne. E poi ne ha così tante...
Ma attenzione, non si devono mangiare tutte le pigne in una volta. Se ne può prendere solo una ogni tanto.
Solo quelle di cui abbiamo bisogno. Perché un albero è fragile. Bisogna prendersene cura.
Comunque sia, ho il permesso di prenderne un'altra."
 
Da una pigna ogni tanto, lo scoiattolo passa a un'altra e poi un'altra.
D'altronde ce ne sono davvero moltissime e qualcuno potrebbe mangiarle comunque. Tanto vale... E quando anche l'ultima pigna è andata, l'albero continua ad avere milioni di aghi sui rami. Dolci, buoni almeno quanto le pigne. E anche di questi sarebbe meglio mangiare solo quelli strettamente necessari.
D'altronde, si sa che gli aghi sono un po' come le ciliegie: uno tira l'altro.
Finiti gli aghi, sono i rametti a interessarlo: utilissimi per fare dei piccoli falò nel bosco. Ovviamente quando si è in tanti è meglio prendersi dei rami più grandi per fare grandi fuochi. D'altronde l'albero ne ha tanti... anche le poche radici che escono in superficie non sono affatto male. Magari solo qualche pezzettino da sgranocchiare ogni tanto. D'altronde...
 
C'è da sperare che nessuno abbia dimenticato lo scoiattolo p-ossessivo, quello che passa la sua vita a occhi sgranati perché roso dall'ansia che qualcuno gli tocchi il suo albero. 
 

Se ne annuncia qui il felice ritorno, ma purtroppo per lui non si registra alcun miglioramento del suo stato d'animo: continua ad avere gli occhi sgranati. Adesso però ha canalizzato la sua ansia sulla cura del proprio albero. Se prima lo difendeva dai possibili attacchi esterni, predatori che avrebbero potuto appropriarsene indebitamente, adesso, nella raggiunta sicurezza che nessuno glielo tocca, veglia sulla tutela dello stesso: ovverosia rende partecipe il lettore di quelle che in linea teorica sono le buone pratiche perché l'albero cresca e vegeti in tutta salute. Per questa ragione non bisogna mangiarsi tutte le pigne, tutti gli aghi e non bisogna segare tutti i rami o rosicchiare tutte le radici.
Lo scoiattolo p-ossessivo conosce molto bene la teoria del prendersi cura, ma la pratica è tutta un'altra questione.
Con la sua consueta ironia, Tallec sta 'sgridando' qualcuno. O forse sarebbe meglio dire che ci sta sgridando tutti? Il discorso infatti è talmente ben costruito che da una parte chiama in causa l'umanità intera e dall'altra ciascuno di noi. Ma c'è poi davvero differenza? La corsa ad accaparrarsi risorse, a scapito di un ecosistema delicato e fragile, sembra al di sopra della nostra portata: non sembra essere un fatto che ci chiama in causa personalmente, ma piuttosto sembra dipendere dai macrosistemi che mandano avanti il mondo. Eppure, se come singoli, ci mettessimo nella condizione di non pretendere tanto, o addirittura tutto, quell'un po' troppo che Tallec riassume con un guizzo geniale, forse anche l'alibi di dire, ma io da solo cosa posso fare? cadrebbe.
 

E così il p-ossessivo scoiattolo è l'incarnazione di tutti quelli che hanno uno sguardo miope e che del singolo gesto non sanno vederne le conseguenze. E si nascondono dietro il pretesto: ma in fondo perché proprio io devo cominciare?
Il geniale Tallec però non ci attacca un pistolotto sulla questione: al contrario ci pone nelle condizioni ideali per guardare le cose secondo una prospettiva che non ci mette direttamente in crisi. E' lo scoiattolo quello che sta sbagliando. E' lui che non sa darsi una misura. E anzi, non possiamo evitare di ridere di lui, quando alterna abbracci ai rami e poche pagine dopo di quegli stessi organizza tagli radicali, in nome della convivialità (un sospetto però deve essergli venuto, visto lo sguardo incerto al calore del falò). 
 

O quando punta su di noi i suoi occhi inquisitori, minacciandoci di non toccare le pigne, mentre è proprio lui che se le fa fuori tutte in una sequenza di cinque disegni.
Ma sarà poi vero? O quegli occhi sgranati che ci guardano male, sono invece davvero i suoi, del Tallec/scoiattolo?
In una grandiosa sequenza di impercettibili gesti, di occhiate eloquenti, di dettagli minuziosi, di accelerazioni e pause perfettamente calibrate, di una maestria e dominio assoluti del testo e del disegno ecco che ci siamo dentro fino al collo. Al pari dello scoiattolo. Questa è verità.
 
 
A storia finita, un tarlo ci perfora il cervello. E, come se non bastasse, nel finale stesso, pur non potendo non ridere, abbiamo l'amara certezza che la strada verso la salvezza è solo una e, soprattutto, speriamo che almeno questo sia chiaro a tutti, va percorsa in gran fretta!


Carla

FUORI DAL GUSCIO (libri giovani che cresceranno)

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 UNA CURIOSA CONVIVENZA

Tasso è un tipo abitudinario e metodico, si è installato nel villino di proprietà di zia Lula, una martora molto condiscendente. Nel villino, riadattato a sua misura, con un’intera stanza destinata a contenere scatole, Tasso conduce le sue ricerche, di grandissima importanza, sui sassi, che lui raccoglie, classifica e ordina nel laboratorio appositamente attrezzato.
Ma un giorno la sua monotona routine viene interrotta dall’arrivo di Puzzola; a quanto pare zia Lula ha concesso anche a questo simpatico animaletto l’uso del villino. Tasso trasecola; è vero che non ha aperto le lettere di zia Lula, ma trova incredibile doversi confrontare con un’ospite tanto inatteso quanto invadente.
Puzzola ha modi gentili, è disponibile, prepara colazioni eccellenti, ma ha la brutta abitudine di non rispettare i divieti di Tasso: la stanza delle scatole diviene immediatamente la sua, pretende di curiosare nel laboratorio, coltiva la chiassosa amicizia delle galline, tanto da organizzare una grande riunione con le rumorose pennute, mettendo a rischio i preziosi reperti di Tasso. In preda all’ira, Tasso scrive a zia Lula che quella convivenza è del tutto inappropriata, ma la martora non è dello stesso avviso e quindi Tasso deve fare buon viso a cattiva sorte.
Primo di una trilogia, firmata dalla scrittrice americana Amy Timberlake, ‘Tasso e Puzzola’ è stato recentemente pubblicato da HarperCollins, con le illustrazioni di Jon Klassen.
 

Non solo la storia è divertente, basata com’è sul contrasto dei caratteri dei due personaggi principali, anche la scrittura accentua il lato comico del racconto, riempiendolo di suoni, di versi, fra cui i ripetitivo ‘co-co-co’ delle galline, di gag esilaranti in cui immaginiamo il povero Tasso travolto dall’esuberanza del suo coinquilino. Surreali i dialoghi fra Puzzola e le galline, perché Puzzola ne comprende la lingua, mentre seguiamo le ansiose riflessioni di Tasso, sempre più disorientato dalla presenza dell’ospite ingombrante, che, però, prepara delle colazioni fantastiche.
Jon Klassen, da par suo, sottolinea il lato grottesco del racconto, disegnandoci il Tasso chino sul tavolo del laboratorio, prima che la sua vita sia completamente ribaltata.
Perfetto per la lettura ad alta voce, con i suoi capitoli brevi riempiti di suoni e onomatopee, il libro si presta ad una lettura condivisa con bambine e bambini dagli otto anni in poi. E’ una lettura piacevole, divertente, giocata su un umorismo che sfiora il grottesco, ma evita le sottolineature più facili, considerando che abbiamo a che fare con una Puzzola, che provocherebbero le risate dei bambini. Qui si ride parecchio, pregustando le disavventure di Tasso, senza bisogno di ricorrere alle puzze mefitiche.
Lettura consigliata per trascorrere i mesi estivi in leggerezza.
 
Eleonora


“Tasso e Puzzola”, A. Timberlake, HarperCollins 2021



LA BORSETTA DELLA SIRENA (libri per incantare)

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OSPITI INASPETTATI

Il compleanno del tasso, Toon Tellegen, Carll Cneut 
(trad. Laura Pignatti)
Topipittori, 2021
 
NARRATIVA ILLUSTRATA
 
"La donnola amava gli ospiti, ma solo se arrivavano a sorpresa. A volte passava qualcuno, bussava alla porta e diceva chi era, che passa di lì per caso e sperava di non disturbare, ma la donnola allora non apriva e diceva dall'interno: 'Eh già, pensavo che saresti passato... vai, vai, torna un'altra volta, ma vieni a sorpresa'.
Allora l'ospite casuale se ne andava deluso."


Una mattina però accadde qualcosa di insolito. La donnola sentì chiamare il suo nome, così chiese chi fosse e la risposta che la voce pronunciò la lasciò interdetta: non un nome, come si sarebbe aspettata, ma una domanda, a sua volta: indovina chi sono?
Questo mise in moto i pensieri di donnola che rispose, come suo solito che la cosa non la stupiva, ovvero che sapeva che sarebbe passato qualcuno e che le avrebbe chiesto di indovinare...
Ma la voce non si scompose e proseguì, avvertendola che le aveva portato qualcosa. Di nuovo la donnola si mise a ragionare e pensò che la cosa migliore da dire fosse quella di lasciare pure 'la cosa' fuori dalla porta, perché lei comunque avrebbe impiegato chissà quanto tempo a decidere se aprire o no l'uscio di casa.
La voce, per la seconda volta, non si scompose e disse che lei poteva aspettare, anche per giorni.
La donnola cominciò a smaniare e cercò di convincere la voce ad andarsene, perché comunque lei non aveva di certo fatto inviti.
La voce, per la terza volta, non si scompose e dichiarò di essere lì inaspettatamente, in ragione della cosa che aveva portato lì proprio per lei.
La testa della donnola era tutto un frullo di pensieri discordanti che si scontravano, così - in quella giornata così diversa dal solito - decise di agire...


Ci sono autori che meritano un tempo diverso. Un tempo che si possa distinguere, possa essere percepito come 'altro' rispetto a quello consueto.
Tellegen e Cneut, due passioni che condivido con l'editrice, sono tra questi.
Un tempo che forse sono loro stessi a suggerire, o per meglio dire, a rendere necessario. Un tempo denso.Un tempo lungo abbastanza per godersi, tavola dopo tavola, la botanica di Cneut e il bestiario di Tellegen. Per farsi attraversare dalle scelte cromatiche dell'uno e dall'immaginazione dell'altro.
 
 
E da qui, la prima ragione per averlo 'covato' un bel po'.
È sotto gli occhi e nelle orecchie di tutti che Toon Tellegen e Carll Cneut parlino lingue affini, condividendo una comune radice culturale. I Paesi Bassi, regione di grandi filosofi e pensatori e di immensi pittori e incisori, nederlandese l'uno e belga l'altro dimostrano in questo libro perfetta conoscenza del grande passato che li tiene insieme e che rende armonici i loro rispettivi linguaggi espressivi, i loro rispettivi immaginari.
Entrambi capaci di creare mondi alternativi alla quotidianità, e tutto sommato anche parecchio diversi, rispetto alla consuetudine cui ci hanno abituato i libri per l'infanzia. 
 

Inaspettati: da una parte le tavole di Cneut che, una volta di più, esprimono in un libro per bambini echi della pittura e del disegno dei grandi maestri della pittura e dell'incisione nordeuropea e dall'altra i racconti di Tellegen che, una volta di più, aprono scenari sorprendenti.
E da qui la seconda ragione di attenzione loro dovuta.
Le storie che Tellegen concepisce, e che hanno come protagonisti solo animali, sono sempre piene di tante cose: di tenerezza, di grazia, di poesia, di leggera follia, ma soprattutto di pensiero.
E non lo sono forse anche le tavole di Cneut? 
 
 
Si tratta per entrambi di mettere sulla pagina un pensiero denso, profondo, alle volte ombroso  (per esempio nei boschi oscuri e nelle dominanti nere e brune che esaltano il chiaro dei tronchi di betulla), alle volte ironico (nei bernoccoli dell'elefante o nel suo pancino rosa, o ancora nella felpa alla moda della donnola), ma sempre foriero di altro pensiero.
In sostanza, non è possibile leggere nessuna delle innumerevoli storie di Tellegen senza che la nostra mente si sposti, ovvero non possa accomodarsi, ma al contrario continui ad andare nell'interrogarsi, e prosegua sulla strada del ragionamento.
Senza per questo sentire necessaria una conclusione, ovvero una meta sicura.
 

Altrettanto non è possibile guardare nessuna delle tavole di Cneut senza che la nostra mente si sposti, ovvero non si possa accomodare, ma al contrario continui ad andare a cercare le radici di tale esperienza estetica, e prosegua sulla strada della bellezza.
Senza per questo sentire necessaria una conclusione, ovvero una meta sicura.
E da qui la terza e quarta ragione di interesse.
I libri di Tellegen (e si può aggiungere: ancor meglio se illustrati da Cneut) rappresentano un mondo a parte, non solo per i personaggi che sono in scena, ma soprattutto per come essi pensano, stanno al mondo e scrivono lettere. Intendo dire che nel loro spessore - che si percepisce attraverso le loro diversissime idiosincrasie, peculiari abitudini, e modi di agire - si delineano questioni davvero emotivamente molto profonde dentro cui ci si può infilare, a patto di farlo senza esigere nulla in cambio (altrimenti detta una soluzione, una risposta). Sono esperienze che si offrono nella loro gratuità, non hanno un prezzo, a parte quello dovuto al sapiente editore che pubblica libri del genere. 
Starli a guardare, starli a sentire, in altre parole farsi attraversare. E basta.
Non è forse così che si dovrebbe stare di fronte alla bellezza?
Tra i diciassette racconti che compongono il libro, ne ho scelto uno solo, come manifesto. Quello che, più di altri, ha lasciato in me una sensazione di stupore e di piacevole stupidità: d'altronde stupore e stupidità, oltre a condividere la stessa radice semantica, in me vengono a galla - quasi contemporaneamente - di fronte a una cosa bella.
E se questa cosa bella è un libro illustrato, la gioia è anche doppia perché si sa di poterci tornare ogni volta che se ne senta il desiderio, il bisogno.
Provo a chiudere il cerchio. 
 
 
E per farlo, torno a lei, alla donnola, con l'augurio di farvi scompigliare i pensieri come capita a lei, di considerare diversa la giornata, perché chissà che dietro la vostra porta, come dietro la sua, non ci siano Toon Tellegen e Carll Cneut, ospiti inaspettati che hanno qualcosa per voi...


Carla



FAMMI UNA DOMANDA!

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NON UNA, MA MOLTE DOMANDE SUGLI ALBERI 
 
C’è un grande fervore intellettuale che interseca diversi aspetti della biologia; fra questi, uno dei più vivaci riguarda la botanica, che di recente ha spalancato orizzonti imprevisti, riguardo alle relazioni fra le piante e il loro ambiente e fra di loro.
 

Se il tema della ridefinizione del mondo vegetale anche in chiave cognitiva è un tema complesso, non per questo non è cambiato lo sguardo sugli alberi, in particolare, anche nei libri per bambini.
Ve ne propongo due, che affrontano il tema da punti di vista differenti.
Decisamente più scientifico il primo, ‘Piante domesticate e altri mutanti’, di Iban Eduardo Muñoz e Alberto Montt, pubblicato da LO Officina Libraria. Per spiegare come si è giunti alle attuali varietà botaniche, che entrano nella nostra alimentazione, a partire da piante selvatiche, i due autori raccontano in sintesi teorie dell’evoluzione e genetica, che sono gli strumenti teorici che oggi utilizziamo per spiegare e governare il mutamento. Non è, ovviamente, che le popolazioni antiche ne disponessero, utilizzando invece strumenti come gli incroci selettivi, gli innesti e altre tecniche comunque efficaci rispetto allo scopo: rendere più digeribile una pianta, o avere dei frutti più grandi, o delle piante più resistenti ai parassiti.
 

Oggi, come è noto, si utilizza l’ingegneria genetica, che consente di intervenire direttamente sul DNA. Non tutti sono d’accordo nel percorrere questa strada, così come in molti temono per la riduzione della biodiversità anche in campo alimentare. Qui infatti si gioca una partita assai importante, che si fonda sullo studio dell’influenza del mondo vegetale sulla nostra vita, influenza ben più articolata di quanto si possa immaginare.
E’ un libro molto interessante, ricco di aneddoti, illustrato con grande senso dell’umorismo; ma quello che ho trovato ancora più rilevante è la bibliografia, è raro trovarne di così serie, che parte da ‘Armi acciaio e malattie’, per arrivare a ‘La storia degli alberi e di come hanno cambiato il nostro modo di vivere’ o ‘L’incredibile viaggio delle piante’.

L’altro libro illustrato è ‘Come un albero’, scritto da Maria Gianferrari e Felicita Sala, pubblicato da Rizzoli. Qui le autrici, nell’invitare i giovani lettori e le giovani lettrici a sentirsi come un albero, ne descrivono le caratteristiche nel dettaglio, dalle radici che affondano nel terreno e si intrecciano con le radici di altri alberi e con i funghi, al tronco suddiviso in tante parti, ciascuna con una propria funzione, alle chiome di forme e dimensioni diverse. Noi, come gli alberi, ci diamo forza l’un l’altro, ci sosteniamo, scambiamo informazioni. E se il linguaggio è poetico e le immagini evocative, il punto di partenza è proprio dentro quel dibattito culturale di cui parlavo all’inizio: Maria Gianferrari, nelle conclusioni, racconta proprio come l’inizio del suo più spiccato interesse per gli alberi nasca dalle lettura del libro di Peter Wohlleben, ‘La vita segreta degli alberi’.
 

E dunque siamo di nuovo lì, con queste grandi domande su ciò che non sappiamo e che abbiamo voluto ignorare sul mondo dei viventi: tutta quella complessità nel rapporto con l’ambiente che dimostra doti non riducibili alla semplice espressione di reazioni meccaniche.
In questo libro illustrato si verifica quello che in una normale esposizione scientifica sarebbe scandaloso: la sintesi fra un linguaggio poetico, di parole ed immagini, e concetti scientifici, atti a smuovere non solo la curiosità di bambini e bambini, ma anche l’emotività.
Me lo aspettavo, che questo incipiente cambiamento di paradigma sarebbe entrato nel mondo della dei libri per ragazzi: ora con le piante, poi succederà, ne sono certa, anche nel mondo delle ricerche sulle capacità cognitive degli animali.
Piano piano spodestati dal nostro ruolo nel Cosmo, stiamo aprendo gli occhi su una Natura ben più complessa di quello che sappiamo descrivere. C’è una lunga strada da percorrere per i giovani scienziati e scienziate che si affacciano ora sul mondo della scienza.
Entrambe le letture sono adatte a bambine e bambini a partire dagli otto anni, ma anche genitori e insegnanti potrebbero allargare i propri orizzonti accompagnando nella lettura i più piccoli.
 
Eleonora


“Piante domesticate e altri mutanti”, I.E. Muñoz, A. Montt, LO Officina Libraria 2021
 
“Come un albero”, M. Gianferrari, F. Sala, Rizzoli 2021




LA BORSETTA DELLA SIRENA (libri per incantare)

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IL LUMINOSO MEDIOEVO

Il trionfo della Morte, Matteo Gubellini
Scomodincanti, 2021


ILLUSTRATI
 
"Mentre l’esercito gaudente se ne stava in ammollo nel turchese, una figura sottile sbirciava nascosta tra gli alberi.
Era la Morte, scura scura. Davanti a lei un esercito beato tramortito dal vino, e soprattutto disarmato!
La Morte quel giorno era ancora a digiuno, neanche un cadavere aveva raccolto nel suo paniere, e guardando l’esercito pensò: 'che boccone prelibato per un re in vena di conquiste!' E si rammentò che in una città non troppo distante regnava un sovrano crudelissimo, e altresì ambizioso: Re Crudo."


Così la Morte che per metter gente nel suo paniere ha bisogno che le cose vadano in un certo modo - insomma ci devono essere le giuste condizioni per per poi intervenire con la propria falce - pensa che sia Re Crudo il suo compare ideale. Lui è cattivo e assetato di potere e non si tirerà indietro all'idea di avere vittoria facile sull'esercito ubriaco di Re Luciano che festeggia la recente vittoria, sguazzando disarmato nel laghetto.
 
 
Purtroppo però, proprio quel giorno l'esercito del perfido sovrano è in libera uscita e la Morte non solo non ottiene la carneficina sperata, ma addirittura viene cacciata in malo modo perché ha osato declinare l'invito a pranzo del permaloso sovrano, che a ben vedere, sarà pure re, ma è anche pieno di difetti.
Sconsolata, si aggira per i colli, ormai convinta che la giornata è persa. E allora, persa per persa, tanto vale accettare l'invito dei soldati ubriaconi a godersi anche lei una bottiglia di buon vino e un bel bagno al lago. Saranno stati i pensieri foschi, o forse sarà stato il vino, ma la Morte per un attimo si dimenticò di un particolare non del tutto irrilevante: se ti tuffi in un laghetto turchese, è meglio sapere come stare a galla...


Sciocchi e frettolosi si dimostreranno tutti coloro che pensano che la Morte possa davvero finire i suoi giorni così. D'altronde è cosa risaputa che la Morte (e il Peggio) non muoiono mai! Le cose andranno come devono andare, ma da questa parte è doveroso che sull'argomento il silenzio cali.
Al contrario, è altrettanto doveroso dire almeno un paio di cose su questo nuovo libro di Matteo Gubellini, che esce dalla sua'officina' di Scomodincanti.
La prima e la più evidente di cui parlare è il tono scanzonato, picaresco della storia.
 
 
L'intero impianto si regge su un grande equivoco che ruota intorno alla parola 'trionfo'. Nell'immaginario e nel senso comune il trionfo è sinonimo di vittoria schiacciante. E quello della Morte, in particolare, allude alla sua inevitabile supremazia nei confronti di tutto ciò che è vivo. Senza esclusione di colpi e senza riguardi: e sotto a chi tocca.
Le immagini che lo raffigurano sono spesso in collegamento con i Giudizi Universali, sulle grandi pareti affrescate, le controfacciate delle chiese del Medioevo (così quando esci dopo la funzione religiosa, te ne vai con questo bel memento morinegli occhi...).
La Morte, ritratta spesso a cavallo, ma sempre scheletrica con il suo mantello e il suo cappuccio e l'immancabile falce, diventa di grande attualità alla metà del Trecento, dopo la Peste nera del 1348, per ovvie ragioni. In questi affreschi o tele sono tre le costanti: un grande parapiglia brulicante di persone su cui la Morte e i suoi soldati trionfano, un evidente interclassismo delle vittime e un diffuso gusto per il macabro, il comico e il grottesco.
 

Matteo Gubellini a questo sapore irriverente non rinuncia, giustamente, e si allinea anche nei toni del testo che sono quelli dell'oralità, del 'cunto'. Circostanza questa che rende questa storia 'perfetta' per essere letta - o meglio recitata - a voce alta. Una collana di piccole parole/perla sono sparse qui e là con sapienza e arguzia.
Dalla tradizione arriva anche l'iconografia della Morte, a cavallo, secca secca, con un bel teschio sul collo, il mantello e la falce d'ordinanza. 
 

Ma anche in questo caso, Gubellini non può fare a meno di aggiungere una serie di dettagli comici e grotteschi, che chi vuole se li trova.
I personaggi, tanto i soldati dell'esercito, quanto i sudditi di Re Crudo, brulicano in modo scomposto sulle rive del lago e in città al comparire della Morte, e ricordano parecchio i loro omologhi dipinti da Brugel, ma anche quelli un po' raffazzonati che Enrico Maria Salerno, con lo sguardo profetico, invitava a transitare in fila longobarda sullo cavalcone.
Matteo Gubellini è però Matteo Gubellini quindi non può per questo rinunciare all'altra sua cifra, quella metafisica, e così colloca tutta questa varia umanità entro scenari che, se svuotati del movimento, restituiscono volumi puri per le architetture, non importa se disseminate nelle morbide colline, o in città. Non è forse questo un altro modo di tenersi legato a quel 'luminoso' Medioevo, ovvero alla pittura dei maestri, di Piero in particolare?
Detto tutto questo, resta un fatto incontrovertibile: Matteo Gubellini ha sempre qualcosa da raccontare e qui lo fa divertendosi, forse anche più del solito. 
 
 
 
E noi, con lui.
 
Carla

 

 



FAMMI UNA DOMANDA!

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BELLE E PERICOLOSE

Le incursioni nel terreno inconsueto della divulgazione, da parte delle coraggiose editrici di Camelozampa, continuano con un bel libro illustrato dedicato alle meduse.
Quale argomento più stimolante, proprio ora che si profila la possibilità di precipitarsi a popolare le nostre spiagge?
‘Il giardino delle meduse’, scritto da Paola Vitale, biologa e divulgatrice, e illustrato da Rossana Bossù, è un libro serissimo che racconta con grande precisione le caratteristiche peculiari di questo animale marino appartenente alla classe degli scifozoi: se ne racconta lo sviluppo, dalla forma di polipo all’età adulta, l’alimentazione, le modalità di movimento.
Personalmente ho trovato particolarmente interessanti due punti. Il primo è squisitamente estetico e riguarda sicuramente le splendide illustrazioni di Rossana Bossù, ma ancor prima la struttura di questo animale che presenta incredibili simmetrie raggiate, in forme diversissime. La bellezza di queste forme naturali sta nel circondare questa struttura ‘geometrica’, con le molteplici, variabili forme dei tentacoli. Come se la perfetta e rara simmetria si sposasse con il movimento elegante che le porta dai fondali alla superficie e viceversa. Le illustrazioni rappresentano efficacemente la consistenza evanescente di questi animali, la loro variabilità per forma e dimensioni. C’è anche qualche tavola di infografica, in cui il disegno assolve in pieno alla funzione di informazione.

Grandi o piccolissime, si nutrono tutte di piccoli crostacei e di pesci, ma, e questo è il secondo punto, costituiscono una sorta di termometro naturale della febbre dei mari. 

Aiutate dai cambiamenti climatici, hanno conquistato zone di mare in cui non erano presenti, in alcuni casi, come nel Mar Nero, spazzando via numerose specie di pesci, soprattutto diventando inarrestabili competitori sul piano alimentare e nutrendosi, per di più, di uova e larve di pesci. Questi ultimi sono poi oggetto di una pesca sistematica e implacabile e così le meduse hanno via libera per le loro incursioni nei mari e negli oceani del mondo.
 

Che sia opportuno e saggio starne alla larga è cosa nota; che segnalare la presenza delle meduse che incontriamo, per contribuire a monitorarle, lo è di meno; l’autrice auspica il diffondersi di questa ‘citizen science’, che rende il cittadino partecipe del controllo sui mutamenti ambientali.
Antichissime, presenti già nel Cambriano, sono fra i gruppi animali con il maggiore successo evolutivo, sicuramente affascinanti e pericolose come le protagoniste dei romanzi noir, nascondono ancora molti segreti, per le repentine sparizioni, che tali non sono, e per le improvvise ricomparse.
 

Su questo mondo, segreto e affascinante, si svolge il racconto di questo bel libro, sintesi equilibrata di informazione e di ricerca estetica, che piacerà sicuramente a bambine e bambini curiosi a partire dai 7 anni, ma anche agli estimatori dei libri illustrati.
 
Eleonora


“Il giardino delle meduse”, P. Vitale e R. Bossù, Camelozampa 2021



LA BORSETTA DELLA SIRENA (libri per incantare)

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IL LAMPONE POP

L'isola dessert, Ben Zhu (trad. Giulia Genovesi)
Terre di mezzo 2021

ILLUSTRATI PER PICCOLI (dai 4 anni)
 
"'Sono bloccata su un'isola dessert. È fatta di cioccolato, glassa e lamponi.''Sono bloccata su un'isola deserta. È fatta di terra e rocce.'
'Sono proprio fortunata!''Sono proprio affamata.'"
 
Una scimmia gialla e una volpe rossa. La scimmia gialla e su un'isola che è una torta, la volpe rossa è su un'isola. Punto.
 
 
La scimmia gialla si considera fortunata, non avrà da ingegnarsi per il cibo, lei. La volpe rossa, lei no. Ha due erbette a disposizione, una addirittura sotto un sasso.
 

Accade che la scimmia gialla cominci a sbocconcellare la sua torta e, dato che è bella grande, non sente nemmeno il bisogno di preoccuparsi di quel lampone che cade in mare. A lei non serve. Mentre alla volpe che lo vede navigare davanti alla sua isola, serve eccome.
La scimmia gialla è satolla e forse non si accorge del cielo che si chiude di nuvole. La volpe rossa, visto che è sereno, pianta il suo lampone. E si mette in attesa di un po' d'acqua dal cielo.
Ora piove. La scimmia gialla vede sciogliersi la sua isola dessert, la volpe rossa vede crescere la sua piantina.
Ora il mare si gonfia. La scimmia gialla si aggrappa come naufrago all'ultimo boccone dell'isola dessert e comincia a navigare. La volpe rossa si emoziona davanti al germoglio che cresce...
Ora il mare è in tempesta. La scimmia gialla si abbarbica all'ultimo lampone. La volpe rossa salta di gioia perché il germoglio è già una pianta più alta di lei...


È il suo primo albo illustrato. Eppure Ben Zhu ha già le idee piuttosto chiare su come l'oggetto possa esprimere le sue potenzialità. A tale proposito, Dan Santat con felice sintesi ha scritto di lui: “Ben Zhu offers a charming and thoughtful debut about turning lemons into lemonade.” 
Un libro che si rivela una bella idea con qualche implicazione ulteriore. 
La prima cosa che si nota e che fa sorridere è lo spunto di partenza: un gioco di parole tra dessert e desert. Una esse che può fare molta differenza.
Da lì la storia si costruisce sul confronto fra i due personaggi, affrontati seppur tenuti lontani da una necessaria cornice bianca intorno al disegno, dai tratti decisamente pop. Sulla doppia pagina per ben otto volte di seguito li vediamo e impariamo a conoscerli attraverso le loro stringate frasi, dei loro due monologhi che si alternano.
 
 
Scimmia e volpe, così prosegue la vicenda, si incontreranno, ma di più non è il caso di dire. Circostanza questa che fa sì che le restanti otto pagine siano occupate da tavole doppie, che occupano l'intero piatto del libro.
Un meccanismo perfetto, un ritmo assolutamente regolare, un nitore lessicale impeccabile, un contenitore esemplare sono di fatto il 'guscio' di questa storia. Al suo interno, la polpa, ha una consistenza molto più plastica. E questo accade proprio in virtù di una valutazione e misura maniacali delle singole parole, che in totale saranno poco più di un centinaio.
 

I due monologhi, ed è qui che Ben Zhu costruisce spessore, in realtà dialogano nella nostra testa. La loro forza sta nel contrasto tra le parole e nel contrasto delle loro due rispettive Weltanschauung: per essere più chiari, quando inizia a piovere la scimmia gialla esclama con la faccia contrariata: Pioggia! la volpe rossa esulta dicendo: Acqua! (per il suo germoglio). Quando la scimmia gialla perde il lampone distratta commenta, be' tanto non mi serviva... e la volpe rossa che lo vede in acqua, contenta e attenta, 'risponde': questo sì che mi serviva! Quindi Ben Zhu crea due monologhi che per otto pagine, sentiamo inevitabilmente come dialogo e che poi, per le successive otto, diventano a tutti gli effetti conversazione.
Nonostante la 'camera fissa' sulle due isole, la distanza tra la scimmia gialla e la volpe rossa viene creata ad arte, grazie anche alla costruzione dello scenario, con una interessante alternanza di notte/giorno, alba/tramonto, cielo terso/cielo corrusco, salvo poi lentamente uniformarsi in una bella tempesta di pioggia in mare aperto.
Sul finale, Ben Zhu dà ulteriore prova di saper sfruttare al meglio la forma del libro, con un bell'effetto sorpresa nel giro di pagina che anticipa il gran finale, che - a ben vedere - è addirittura doppio e non trasuda retorica, come invece poteva facilmente accadere.
 

Ben Zhu, per essere un esordiente nel mondo dell'albo illustrato, ha stoffa da vendere e buoni maestri da cui trarre insegnamenti. Primo fra tutti Jon Klassen, citato tra i molti ringraziamenti, cui sembra ispirarsi l'attenzione puntuale per la scelta delle parole del testo e la sua collocazione, nonché la potenza straripante del dialogo preferito a qualsiasi altro tipo di narrazione.
Che questo giovane uomo, emigrato da Pechino in California con i suoi negli anni Ottanta, all'età di 7 anni, abbia belle idee in testa, lo dimostrano varie scelte fatte nella sua carriera, non ultima quella di aprire una galleria d'arte piuttosto particolare, la Nucleus Gallery. Ma il colpo di genio lo ha avuto all'inizio del suo percorso lavorativo, quando decise di nascondere il proprio biglietto da visita in un classico biscotto della fortuna, (di nuovo) una bella idea con qualche implicazione ulteriore. Va da sé che al suo primo colloquio di lavoro con questa idea, ha conquistato tutti e ottenuto il posto di disegnatore di uno dei più famosi videogiochi di sempre.


Carla





 

FUORI DAL GUSCIO (libri giovani che cresceranno)

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BAMBINE ‘CATTIVE’ E MOSTRI

C’è un rapporto speciale fra bambine e mostri, a partire da ‘Mostro peloso’, il capolavoro di Bichonnier e Pef; o nel meraviglioso, irriverente ‘Lo Yark’, di Gapaillard e Santini. In particolare c’è un potere nascosto nelle bambine ‘irregolari’, che emerge soprattutto nei duelli con i mostri più cattivi; a questa regola non scritta non sfugge nemmeno ‘Bethany e la Bestia’, scritto da Jack Meggitt-Phillips e illustrato da Isabelle Follath.
All’inizio della storia si pone il connubio fra Ebenezer Tweezer e la Bestia, che nasconde al quindicesimo piano della sua casa. Ebenezer ha centoundici anni e l’aspetto di un ragazzo di vent’anni, grazie al diabolico patto stipulato, centinaia di anni prima, con la Bestia, entità repellente e vorace che lo ricambia dei suoi sordidi servigi con un siero di eterna giovinezza.
La Bestia, come tutte le Bestie che si rispettino, ha una fame insaziabile, placata dai più stravaganti bocconcini, oggetti, animali domestici e animali rari.
Ebenezer nei fatti è un procacciatore di prelibatezze, che scompaiono velocemente nella enorme bocca del mostro; in cambio, oltre al siero miracoloso, ottiene soldi a palate, oggetti d’arte, mobili e accessori della casa, tutto rigorosamente vomitato dalla puzzolente bocca del mostro.
A lui va decisamente bene così, non si è mai preoccupato più di tanto della sorte delle vittime, con la sola eccezione della volta in cui ha dovuto sacrificare il gatto di casa.
Ma arriva il momento delle scelte quando la Bestia gli chiede perentoriamente di portargli un bambino paffutello. Ebenezer all’inizio si pone solo il problema di come procurarsi un pargolo: va allo zoo, facendosi cacciare, poi in un orfanotrofio, gestito dall’immancabile orribile direttrice. Qui alla fine sceglie Bethany, un’orfana dal carattere insopportabile. Pensa così di non avere scrupoli a presentarla alla Bestia, che però gli impone di metterla all’ingrasso. I giorni passati insieme, fra litigate, scherzi diabolici e visite alla Bestia, fanno maturare a Ebenezer, nel frattempo divenuto vecchio, la decisione di disobbedire, per la prima volta, al mostro che l’ha tenuto in vita fino a quel momento e che in quel momento lo ricatta proprio con il siero.
Per fortuna c’è Bethany, con la sua furbizia e il suo coraggio, che affronta la Bestia e la batte sfruttando proprio la sua ingordigia.
Tutto finisce bene? Forse, perché il finale lascia aperta la possibilità di nuove avventure di questi nemici mortali, mentre Ebenezer riacquista la giovinezza e una piccola, si fa per dire, scorta di siero.
Se la Bestia incarna il prototipo del cattivo, mostro vorace e insaziabile, gli altri personaggi non sono proprio anime candide: Ebenezer ha fin lì assecondato le crudeli richieste della Bestia, in cambio dell’eterna giovinezza; Bethany è una bambina aggressiva, maleducata, amante delle più improbabili schifezze alimentari. Eppure dall’incontro fra questi due ‘cattivi’ deriva un cambiamento che coinvolge entrambi, li trasforma prima in alleati, poi in amici, con buona pace di una Bestia sempre più inferocita.
 
 
Si tratta di una trama non nuova, ma trattata con grande ironia, uno stile frizzante che accompagna il lettore e la lettrice in un crescendo di situazioni paradossali.
Si sorride molto, soprattutto delle imprese di Bethany, si ha qualche raro moto di disgusto per le nefandezze della Bestia, si chiude il libro con la certezza che la storia non finisce lì.
Anche la Bestia, così presa da se stessa da non vedere l’atroce inganno finale, un po’ fa sorridere, ma non raggiunge i livelli di simpatia dello Yark, mostro insuperabile nella sua determinazione a mangiare bambini buoni.
Lettura scorrevole e divertente per bambine e bambini a partire dai nove anni, ma adatta anche alla lettura condivisa con lettori più inesperti.
 
Eleonora
 
“Bethany e la Bestia”, J. Meggitt-Phillips, ill. di I. Follath, Rizzoli 2021



LA BORSETTA DELLA SIRENA (libri per incantare)

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EVAN IL TERRIBILE
 
Un'isola tutta per noi, Sally Nicholls (trad. Anna Becchi)
San Paolo Edizioni 2021
 

NARRATIVA PER GRANDI (dai 10 anni)
 
"Ho aperto il cassetto. Era pieno di cose sue, cose che credo zio Evan e Jo avessero portato o tirato fuori dalla sua borsetta o giù di lì. 'Cosa? Queste?' ho tirato su gli auricolari. 'Questa?'. Una scatola di pillole. 'Questo?'. Un pacchetto di polo alla menta. 'Questo?' Ho tirato fuori quello che sembrava un libro e lei ha iniziato ad agitarsi veramente parecchio. Ha smesso di dare colpi e ha mosso le mani facendomi dei segni. Ho guardato ciò che tenevo fra le mani. Era un albo fotografico, uno di quelli piccoli con una singola foto per ogni pagina e con in tutto lo spazio per una ventina di foto.
Mi ha sorpreso che zia Irene avesse una cosa del genere."


Zia Irene, è sempre stata una donna molto particolare: tecnologica e, da sempre, piena di segreti e misteri riguardo ai suoi possedimenti; convinta che nella vita ognuno dovesse guadagnarsi il proprio posticino nel mondo attraverso l'impegno personale.
Ora è in fondo a un letto di ospedale: ha avuto un ictus. A gesti e a bocconi di parole sta cercando di convincere Holly, 12 anni, a prendere quell'album e considerarlo un suo regalo, ma soprattutto la incita a 'uuaare... uuaare'. E ancora di più le preme che né il marito Evan né la figlia Jo, assistano alla scena. Ma loro fortunatamente sono al bar dell'ospedale...
In quelle poche foto - non si tratta di foto artistiche, o foto ricordo di persone, piuttosto sembrano foto per provare un nuova macchina fotografica - sono immortalati luoghi ai loro occhi sconosciuti: rotaie, spiagge, uffici. Un vero mistero per i tre orfani Kennet, ai quali evidentemente la zia, in punto di morte, sta offrendo un bandolo di una intricata matassa per arrivare ai suoi gioielli, di cui saranno - per sua espressa volontà testamentaria - i futuri proprietari.
Bisognosissimi di soldi, i tre orfani Kennet - Jonathan 18 anni tutore dei suoi fratelli, Holly di 12 e Davy di 7 dal momento della morte della loro mamma - sono per ovvie ragioni un nucleo familiare piuttosto originale che può contare poco sull'aiuto dei parenti, mentre un po' di più sul sistema di welfare britannico. Ma è sempre poca cosa: finiti i risparmi della madre, con il sussidio dello stato e il magro stipendio di barista, Jonathan a malapena riesce a pagare l'affitto della loro casa e il cibo (spesso vanno a 'panini'). Ma tutto ciò che è un extra o, peggio, un imprevisto, come per esempio la malattia di Sebastian, il coniglio di Davy, mette in crisi il loro precario sistema di autosussistenza.
Quindi i gioielli di zia Irene, sarebbero proprio un bel colpo di fortuna, che metterebbe i tre fratelli nelle condizioni finalmente di fare una vita un po' più adatta alla loro età. E magari anche di salvare il loro coniglio.
Grazie a una serie di felici intuizioni di Holly, con il supporto di una squadra di 'aiutanti' adulti un po' sui generis, comincia così la loro avventurosa, quanto macchinosa ricerca di questo 'tesoro' che li porterà fino su una piccola isola scozzese, nell'arcipelago delle Orcadi.


La cosa che colpisce di più in questo buon romanzo è l'abilità della Nicholls di essere credibile, pur nell'apparente assurdità dell'intera vicenda.
Il piacere che spesso la buona letteratura genera nei propri lettori, ovvero la c.d. sospensione dell'incredulità: lo so che non è vero ma ci voglio credere, qui è diffuso e capillare.
In primo luogo, la situazione di partenza: tre fratelli che vivono da soli, sotto la tutela del maggiore, è già un bell'avvio, narrativamente parlando. Di fatto, nella vita di questi ragazzini ora non c'è nessun adulto di riferimento: padri andati o morti, madre fatta fuori da un cancro, nonni affettuosi, ma anziani e in una casa di riposo, zia Grace anaffettiva e basata in Australia, cugina Jo troppo occupata, zio Evan gretto e meschino, al limite della perfidia: di certo il peggiore. Se tutto questo può sembrare effettivamente un buon inizio per un romanzo di fine Ottocento, nel 2021 potrebbe sembrare inverosimile, e anche un po' stucchevole. E invece questo non succede. Perché nella voce narrante, quella di Holly, c'è talmente tanta verità che il lettore, pagina dopo pagina, le va dietro. E basta. I singoli personaggi che, attraverso gli occhi di Holly, anche il lettore vede riga dopo riga assumono spessore e credibilità nel loro essere la risultante di un complesso intreccio tra bene e male, tra difetti e pregi, tra debolezze e forza. Esattamente come accade nella realtà: qui nessuno è buonissimo o cattivissimo, ma tutti si muovono in quella zona intermedia che appartiene alla finitezza umana. Holly sa vedere i difetti, le manie, le fragilità, i limiti, ma anche le aspirazioni, le sensibilità e in generale i sogni di ciascuno.
Attraverso il suo racconto, ci si rende conto che anche l'inverosimiglianza che un diciottenne possa avere legalmente la gestione dei propri fratelli minori, può stare in piedi (non a caso è la stessa Nicholls a presentare, sotto forma di ringraziamento, le sue pezze d'appoggio sulla questione).
Lo stesso si può dire per il surreale scenario umano del Maker Space: i tre fratelli frequentano uno di questi luoghi di condivisione tecnologica che nella realtà esistono (anche ai loro frequentatori è tributato un sentito ringraziamento) e sono 'abitati' da nerd 'socievoli', ovvero che hanno, al contrario del nerd duro e puro, uno spiccato senso di comunità e mettono i loro sapere al servizio degli altri. Qui, fondamentali per la soluzione della questione.
Ovviamente sono verissime anche le isolette delle Orcadi.
Un po' meno verosimile invece risulta la questione delle valigette disseminate per il mondo dalla zia Irene, contenenti pezzi di eredità da recuperare. Ma anche qui lo sforzo di crederci arriva sulla scia di tutto il resto e quindi lo si può prendere per buono. D'altronde è più volte detto che la zia Irene era molto originale.
A conclusione forse vale la pena tornare indietro e fare un'ultima considerazione su quanto detto prima, ovvero sull'autenticità di quello sguardo, di quella voce di tredicenne in cerca di felicità. In lei c'è un pragmatismo e una ferma volontà di superare i problemi che mi sento di riconoscere come proprio dei più piccoli: poche chiacchiere, mettiamoci in moto! Per capire a cosa si vuole alludere, basterebbe metterlo a confronto con la prudenza velata di pessimismo del fratello maggiore, e l'inconsapevolezza in cui abita ancora il piccolino di casa.
Nessuna deroga alla retorica, al contrario divertenti siparietti nel reparto biancheria di un grande magazzino, o al capezzale di una afasica moribonda. 
E brava la Nicholls che riconosce che questa bella mistura di fragilità e forza è il marchio di fabbrica di chi non ha ancora passato il guado dall'infanzia all'essere adulto.
 
Carla



FUORI DAL GUSCIO (libri giovani che cresceranno)

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UNA SAGA GIAPPONESE


La storia giapponese fra la fine del ‘500 e l’inizio del ‘600 offre materiale a volontà, per chi volesse scrivere un’epopea con tutti gli ingredienti del grande romanzo storico, ma anche di costume: intrighi, vendette, misteri, samurai e attrici, case del tè e castelli fortificati. E’ questo il materiale che Camille Monceaux, giovane scrittrice francese, mette insieme per il primo romanzo di una tetralogia, ‘Le Cronache dell’Acero e del Ciliegio’, dal titolo ‘La Maschera del Nö’.
Il protagonista, che racconta le vicende in prima persona, è Ichirö, un bambino dalle origini misteriose, raccolto da un vecchio samurai, Tenzen, e dalla sua governante, Oba. Il bambino porta con sé un monile che con tutta probabilità ne stabilisce l’appartenenza ad un casato. Ma per molti anni la sua vita sarà limitata alla casa nel bosco di Tenzen, dove le sue esplorazioni non vanno oltre il tempio della Dea Volpe. Ichirö viene istruito dall’anziano maestro alla via della spada, la via dei samurai; diventa bravo, ma questo non gli consente di salvare Tenzen dall’assalto di un crudele ninja, che in realtà sta cercando proprio lui. La casa viene data alle fiamme e comincia così per il giovane Ichirö un durissimo apprendistato al vagabondaggio e alla povertà.
Dopo aver vagato a lungo nei boschi, perdendo ogni suo avere compresa la spada del maestro samurai, approda alla pericolosa città di Edo, l’antica capitale. Qui è ancora più difficile sfuggire ai pericoli, alle bande criminali, alle guardie, ai procacciatori di bambini e bambine per le case del tè.
Quando è proprio nei guai viene raccolto da Daichi, un poeta squattrinato, autore di testi per il teatro kabuki, che si oppone al più tradizionale teatro nö. La vita del nostro protagonista ricomincia con un nuovo nome, Tomo. Diventa inserviente, e poi attore, del teatro locale, viene accolto dalla famiglia di Shin, anche lui aiutante nello stesso teatro. Nello stesso tempo fa conoscenza con una ragazza misteriosa, Hiinahime, che vive portando costantemente una maschera del nö, reclusa nella sua abitazione.
E’ per esaudire un suo desiderio, recitare almeno una volta in teatro, che la situazione di Tomo precipiterà nuovamente nella disgrazia. Il teatro va a fuoco, lui viene incolpato, mentre alcuni sospettano che Tomo non sia quello che dice di essere. Incarcerato, torturato, viene alla fine liberato dall’amico Shin, ma il suo destino lo porta a fuggire ancora.
E’ un intreccio complesso, basato sulla ricostruzione storica del Giappone di quel periodo, caratterizzato da feroci lotte per il potere, da una società fortemente gerarchizzata e dal potere dei samurai. L’autrice si prende tutto il tempo necessario per portare la lettrice e il lettore nel Giappone antico, nei suoi usi e costumi, descrivendo nel dettaglio abiti, cibi, abitazioni, ma anche le ingiustizie, i soprusi, la violenza di una società fortemente maschilista.
Si tratta, però, essenzialmente di un romanzo di formazione, la crescita del giovane samurai attraverso le durissime prove che la vita gli impone ed è probabilmente su questo aspetto che si soffermerà l’interesse dei giovani lettori e lettrici: è una storia descritta a tinte forti, con personaggi molto definiti, per certi versi simili a quelli del romanzo fantasy. Ma non è l’unico elemento di attrattiva; l’altro, ed è potente, è il fascino, in questo momento dilagante, per il Giappone, per le sue atmosfere, per i suoi fumetti. Un fenomeno collettivo che periodicamente si riaffaccia, sempre con le medesime caratteristiche. L’editore italiano, L’Ippocampo, ha colto questa tendenza, traducendo questo romanzo, ma anche altri testi che vanno nella stessa direzione.
Se è indiscutibile la cura con cui l’autrice ha costruito la cornice storica del romanzo, tuttavia mi è sembrato di cogliere qualche immaturità letteraria nella descrizione dei personaggi e delle loro relazioni. E’ soprattutto un romanzo corale, basato sullo schema del ‘giovane in cerca del suo destino’, che è ovviamente un destino di battaglie, di vittorie e sconfitte.
Pur con questi limiti, è sicuramente molto più interessante della stragrande maggioranza dei romanzi destinati ai cosiddetti ‘giovani adulti’, con le dovute eccezioni.
Lettura estiva perfetta, con molte emozioni e uno sguardo non banale sull’amato Giappone.
 
Eleonora


“Le Cronache dell’Acero e dell Ciliegio. Libro1. La Maschera del Nö”, C. Monceaux, L’ippocampo 2021



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